di Santino Piazza (Ires Piemonte) [1]
Due temi animano trasversalmente i contributi contenuti in questo numero. Il primo è il riconoscimento del ruolo sempre più importante assunto dalle risorse non ordinarie, di fonte europea e nazionale (fondi di coesione) e dai fondi Pnrr e altre risorse aggiuntive (fondi verticali a sostegno della perequazione orizzontale comunale) per riavviare il ciclo degli investimenti degli enti locali e per la riduzione dei divari territoriali. Tale ruolo non appare destinato a ridursi, stante il perdurare della difficoltà del bilancio pubblico e l’allargarsi, o il persistere, dei divari inter- e infra-regionali nel nostro paese.
Nel primo contributo di Piazza e Feletig si pone l’accento sulla rilevanza delle risorse di coesione per il finanziamento della spesa locale per la Cultura, uno dei settori a cui si riconosce un ruolo significativo nelle politiche di recupero dei territori marginali, oltre a quello svolto nelle aree urbane medie e grandi. Le due regioni che fanno maggiore affidamento sulle risorse di coesione per il settore Cultura, limitando lo sguardo alle regioni del nord, sono la Toscana e il Piemonte. Nella prima, il 6% delle spese totali pubbliche, in media, è effettuato su fondi per la coesione, mentre nella seconda, il settore culturale è sostenuto per circa il 3% in media lungo il periodo 2000-2017 grazie alla rilevanza delle risorse FESR. La Toscana risulta dipendere per circa un quarto della sua spesa in infrastrutture nel settore culturale dalle risorse per la coesione territoriale, seguita dal Piemonte con circa il 12%. Anche per le altre regioni del nord analizzate questa quota è rilevante, ma non supera mai il 6% delle risorse totali destinate al settore.
Le indicazioni contenute nel secondo contributo di Piazza e Feletig, mostrano quanto nel nostro Paese permanga una certa difficoltà nel rendere operativi i programmi finanziati e nell’erogare la spesa nei tempi stabiliti dalle procedure europee. Si tratta di difficoltà che presentano un profilo territoriale piuttosto definito, particolarmente concentrato nelle Regioni del Meridione, ma pure il Nord del Paese è interessato da questo problema. La nostra regione è tra quelle che presentano una quota maggiore di progetti che sono stati attivati oltre le tempistiche della programmazione 2007-13 per quel che riguarda il FESR, mentre Lombardia e Veneto presentano quote maggiori di progetti attivati in “ritardo” per il FSE.
Il secondo tema trattato in questo numero di Politiche Piemonte, che discende logicamente dal primo, è quello del ruolo che possono e devono assumere, in un contesto che è già caratterizzato da crescenti vincoli all’autonomia di spesa e di entrata delle autonomie territoriali, gli enti (qui i Comuni) di fronte alla pressione esercitata dalla disponibilità di ingenti risorse aggiuntive PNRR e statali finalizzate all’innalzamento dei livelli di servizio per le funzioni essenziali nei territori. La finestra temporale per cogliere tali opportunità è molto stretta, e decisiva è la determinazione a reagire con efficacia e tempestività alla disponibilità di nuove e significative risorse per soddisfare i diritti di cittadinanza.
Se i divari territoriali non sembrano diminuire nel nostro Paese, come si conferma nel saggio di Garganese e Porcelli a proposito della fornitura dei servizi sociali, è essenziale verificare come il processo di monitoraggio fondato sulla fissazione di obiettivi di servizio possa assicurare che le risorse aggiuntive previste per i Comuni fino al 2030 si traducano in un effettivo potenziamento dei servizi. L’analisi empirica proposta pone alcuni dubbi su tale conclusione, da cui consegue un avvertimento circa la possibilità che le disuguaglianze territoriali siano effettivamente assorbite, con le maggiori distanze – come di consueto – localizzate nei Comuni delle Regioni meridionali.
I risultati delle analisi indicano come il gap da finanziare, al fine di portare i comuni con maggiore carenza di risorse e superiore distanza dagli obiettivi minimi di servizio ai livelli standard di risorse disponibili, potrebbe non essere colmato anche nel medio periodo, non potendo garantire in tale periodo di transizione il raggiungimento degli obiettivi di servizio attesi per ridurre il disagio sociale nei comuni beneficiari dei fondi aggiuntivi. È da sottolineare il fatto che gli autori suggeriscono come, per raggiungere questo obiettivo, non sia sufficiente spendere nel sociale le risorse aggiuntive, ma sia necessaria anche una revisione interna della spesa, che induca i comuni, soprattutto nel meridione, ma non solo, a spendere meno in funzioni dove la spesa è superiore al fabbisogno standard per devolvere queste risorse al settore sociale.
Criticità non troppo dissimili coinvolgono – in una certa misura – anche il tema dei fabbisogni standard e dei livelli essenziali nell’offerta di beni e servizi pubblici di utilità generale. Al riguardo, il caso degli asili nido è specificamente discusso nel saggio di Casavecchia e Tondini. L’Italia si presenta con notevole ritardo rispetto all’obiettivo stabilito venti anni fa per tutti gli Stati membri del Consiglio Europeo di fornire – entro il 2010 – un’assistenza all’infanzia per almeno il 33 per cento dei bambini con età inferiore a 3 anni. Nel nostro paese persistono differenziali di accesso legati alla collocazione territoriale e alla dimensione dei Comuni, oltre che alle condizioni socio-economiche delle famiglie. Ne consegue che i fondi potenzialmente resi disponibili dal PNRR, affinché se ne riscontri un’accettabile efficacia, dovranno essere destinati a attenuare sensibilmente tali differenziali. Si tratta, come accennato in precedenza, di quelle condizioni minime che possono estendere l’effetto congiunturale del PNRR ad un periodo medio-lungo con esiti strutturali. I meccanismi per l’assegnazione di risorse PNRR in questo caso non sono privi di vincoli per i percettori: i Comuni, nonostante le quote allocate ex ante, devono partecipare a bandi e rendicontare la spesa collegando le erogazioni agli obiettivi richiesti dal legislatore. Con una estrema semplificazione, si tratta di paletti al finanziamento dei servizi non troppo dissimile da quanto avviene per l’erogazione di servizi finanziata da fondi SIE.
Secondo un lavoro recente dell’UPB[2], si osserva come i Comuni abbiano mostrato un minore interesse per la realizzazione di asili nido, di cui si registra una minore offerta, e abbiano concentrato l’attenzione sulle scuole dell’infanzia, che invece sono già ampiamente diffuse e coprono la quasi totalità dei potenziali utenti. Nonostante tra i target PNRR si ritrovi un incremento nel livello medio del servizio, secondo le stime UPB, poco più di 3.400 Comuni con una grave carenza di asili nido (tasso di copertura compreso tra 0 e 11 per cento) non hanno partecipato ai bandi PNRR. Il divario più rilevante è tra nord e sud, ma si nota come anche in regioni quali il Piemonte sia in atto, a causa dell’eterogeneità demografica dei territori interni, una compensazione tra Enti caratterizzati da significative differenze nella domanda e nell’offerta per il servizio per infanzia. In questi casi, come sottolineato da UPB, una delle strade percorribili per stimolare una offerta maggiore di posti nido potrebbe essere quella di incentivare ulteriormente l’associazione tra comuni confinanti per l’adesione ai bandi e la fornitura del servizio in forma associata.
E si ritorna così al punto da cui siamo partiti, ovvero il ruolo degli enti territoriali in un contesto di pressioni crescenti per adattarsi al mutato contesto economico-finanziario e alla sfida costituita dalle attese loro rivolte per un contributo efficace alla riduzione delle disparità territoriali inter e infra-regionali.
Il richiamo a fattori locali quali il contesto istituzionale, tra le determinanti nei ritardi nella spesa dei fondi di coesione e altri fondi quali il PNRR, è da considerarsi un’utile astrazione nel dibattito accademico e pubblico per sottolineare il ruolo dei fattori che migliorano l’assorbimento delle risorse di coesione, ma a questo si deve associare una declinazione operativa in termini di potenziamento delle capacità amministrative per aiutare gli enti territoriali impegnati nella trasformazione delle risorse finanziarie di coesione in progetti dotati di significativo impatto nei territori.
Infine, ma non ultimo, è vitale un ripensamento del sentiero percorso dall’autonomia territoriale, il cosiddetto “federalismo fiscale” in versione italiana, che con la riforma del Titolo V della Costituzione ha rappresentato il punto di arrivo di un processo di decentramento avviato fin dal 1992. Allargare lo sguardo dal chi fa cosa a livello delle istituzioni (e con quale efficacia) ai processi che hanno sin qui regolato i rapporti tra livelli di governo, consentirebbe di comprendere meglio i processi che influenzano le attuali strategie di sviluppo delle città e dei territori e aiuterebbe a comprenderne gli aggiustamenti necessari per un rilancio.
[1] Il titolo scelto per questo editoriale prende spunto dal titolo del contributo di Andrés Rodríguez-Pose studioso molto attivo nel dibattito pubblico sulle politiche per la riduzione dei divari territoriali: “Institutions and the fortunes of territories”
Reg Sci Policy Pract. 2020; 12: 371– 386. https://doi.org/10.1111/rsp3.12277
[2] Ufficio Parlamentare Bilancio, Focus n. 9/2022, “Piano asili nido e scuole dell’infanzia: prime evidenze dall’analisi delle graduatorie”, 25 novembre 2022