Migrazioni e integrazione: vere e false emergenze

    a cura di di Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo. (Fieri)

    Le migrazioni non hanno mai avuto una tale centralità nel dibattito pubblico italiano ed europeo. Dal 2015, i livelli di salienza della questione migratoria, e di polarizzazione intorno ad essa, sono senza precedenti. Tutti i più importanti sviluppi politici avvenuti in Europa (e non solo) negli ultimi anni 

    dalla Brexit alla deriva illiberale in alcuni paesi dell’Europa centro-orientale, fino alla formazione del governo Cinque Stelle-Lega in Italia – sono stati influenzati in maniera decisiva da sviluppi in tema di immigrazione.

    Ma quanto c’è di veramente nuovo sul terreno, al livello dei fenomeni migratori concreti, e quanto invece la novità riguarda il nostro modo di percepire e reagire alle dinamiche reali? Siamo di fronte a una cronica “crisi migratoria”, o invece ad una crisi dei nostri modelli sociali e politici, che trova nelle migrazioni un detonatore? E quali sono le implicazioni di queste trasformazioni per il governo locale, per lo sviluppo economico e per la convivenza civile in un territorio che, negli ultimi vent’anni, come tutto il Centro-Nord, è cambiato in modi che sarebbero stati inimmaginabili senza l’immigrazione straniera?

     Il cortocircuito globale-locale

    La globalizzazione ha fatto interagire più direttamente la dimensione globale e quella locale, a tanti livelli e in forme diverse. Ma forse il fenomeno che ha reso questo cortocircuito globale-locale più evidente e tangibile sono state proprio le migrazioni internazionali.

    Mentre questo è vero da decenni (sono passati quasi trent’anni da quando la disgregazione del blocco socialista produsse i suoi clamorosi effetti migratori sulle coste pugliesi), oggi l’interazione di diverse dinamiche strutturali rende questo cortocircuito ancora più brusco e, per certi versi problematico. Tre, in particolare, appaiono i fattori principali.

    In primo luogo, si è progressivamente erosa la cintura di stabilità geopolitica che aveva garantito a lungo un certo grado di protezione dell’Europa occidentale da flussi migratori massicci e non programmati. Iniziato nel 1989, il processo si è accentuato a partire dal 2011, con la rovinosa caduta di quelle autocrazie arabe “moderate” (come ipocritamente venivano chiamati i regimi filo-occidentali non islamisti, o solo moderatamente tali), a cui le istituzioni e gli stati europei avevano efficacemente delegato l’esternalizzazione dei propri controlli migratori.

    Un secondo fattore è stato un decennio di crisi economica, che – non solo in Italia, ma in tutta l’Europa meridionale - ha drasticamente ridotto la capacità del mercato del lavoro di integrare la popolazione immigrata. La crescente marginalizzazione ha fatto gravare questa fascia di popolazione sui sistemi locali di welfare in misura maggiore che in passato.

    Il terzo fattore, che ha moltiplicato l’impatto dei primi due, rendendo il cortocircuito globale-locale ancora più dirompente, è stato la crisi della governance migratoria europea, strisciante fino al 2015 e conclamata da allora. Rivelando l’inconsistenza del principio di solidarietà tra stati membri, questa terza crisi (dopo quella economica e quella geopolitica) ha spinto l’Italia verso la scomoda condizione di “stato-cuscinetto”, diffondendo una percezione di “perdita di controllo”, che ha contribuito a rendere le sirene sovraniste più seducenti.

    Portando a un’intensificazione tendenziale dei “flussi misti” non programmati (anche se con una flessione a partire dal 2017) e complicando i processi di integrazione, questi diversi fattori hanno dunque reso il cortocircuito globale-locale indotto dalle migrazioni ancora più immediato. Per di più, le strategie comunicative volte a rafforzare questo effetto di interdipendenza, per tradurlo in domanda d’ordine pubblico e in consenso politico, si sono fatte sempre più penetranti e pervasive.

     

    La “madre di tutti i problemi”?

    L’immigrazione è la “madre di tutti i problemi”. Non sono le parole di qualche oscuro blogger, ma del ministro dell’Interno tedesco, nonché leader della Unione Cristiano-Sociale (CSU), alleato-chiave della cancelliera Merkel . Diversi governanti europei, dall’Ungheria all’Italia, esprimono concetti simili e anche una fetta crescente dell’opinione pubblica sembra convinta che l’immigrazione sia il nostro principale problema. Per quanto riguarda in particolare gli italiani, nel marzo 2008, agli albori della grande recessione, solo il 7% collocava l’immigrazione tra “le due questioni più importanti che il paese [aveva] di fronte”; dieci anni dopo, questa fascia di cittadini preoccupati è quintuplicata, raggiungendo il 35%[1] .

    Ma forse ancora più importante è che questa diffusa preoccupazione si fonda su una percezione distorta, sia da un punto di vista quantitativo che qualitativo. Per quanto riguarda le dimensioni del fenomeno, esse sono largamente sovrastimate: mentre la percentuale di immigrati proveniente da paesi non appartenenti all’Unione europea rispetto all’intera popolazione è oggi intorno al 7%, i cittadini italiani stimano una presenza pari al 25% . Si tratta di uno scarto particolarmente ampio, anche in una prospettiva comparata: “L’errore di percezione commesso dagli italiani è quello più alto tra tutti i paesi dell’Unione Europea” [2] .

    Anche sul piano qualitativo, la percezione che gli italiani hanno della questione migratoria appare deformata, a partire da una enfatizzazione di alcune manifestazioni specifiche del fenomeno, a scapito della sua complessità. La sineddoche, figura retorica classica che consiste nel ridurre il tutto a una sua parte, sembra essere diventata la chiave espressiva fondamentale per parlare di migrazioni: mentre alcune decina di migliaia di sbarchi monopolizzano la scena mediatica, l’attenzione pubblica e le energie della politica, gli oltre cinque milioni di immigrati regolari sembrano scomparsi. E a correggere questa distorsione non sembrano purtroppo bastare le indicazioni degli esperti, che ci ricordano come solo una piccola parte della crescita della popolazione immigrata negli ultimi anni sia il frutto di arrivi diretti e salvataggi in mare:

    “Nei sette anni considerati (2011-2017) le iscrizioni anagrafiche dall’estero di stranieri hanno superato i 2 milioni [...], di cui quasi 600 mila dell’UE e oltre 1,4 milioni dei Paesi Terzi. Questi dati sono tre volte quelli degli sbarchi (due volte se consideriamo solo i cittadini non UE) e solo in una parte minoritaria riguardano le 750 mila persone salvate in mare [nello stesso periodo]”[3].

     

    Post-verità e rimozione dell’immigrazione normale

    Si dirà che, quando la punta dell’iceberg è così infuocata, è comprensibile che si perda di vista la massa sommersa, assai più imponente ma mediaticamente spenta e politicamente inerte. Eppure, la sineddoche migratoria, anche quando è usata in buona fede, non risulta mai del tutto innocente. Parlare solo delle frange più marginali e sofferenti dell’immigrazione contribuisce, infatti, ad alimentare quell’ansia di massa che in Italia, come abbiamo visto, è già più viva che altrove.

    La spettacolarizzazione dei migranti come vittime è, inoltre, spesso associata all’operazione inversa: alla loro idealizzazione negativa come carnefici (in vesti diverse: trafficanti, stupratori, potenziali terroristi; le varianti si moltiplicano). I due stereotipi opposti – gli studiosi usano spesso la parola inglese frame, cioè “cornici” interpretative – spesso finiscono per sostenersi a vicenda: il sale delle lacrime ha bisogno del pepe della paura, e viceversa .

    Nell’epoca della post-truth politics, questa percezione alterata della realtà migratoria influenza pesantemente la politica e ne viene a sua volta alimentata, in un circuito difficile da spezzare . La rappresentazione ingigantita e distorta dell’immigrazione, e il mito dell’invasione, vengono usati per imporre un approccio di politica migratoria ancora più emergenziale e sicuritario che in passato. Ne è un esempio lampante il decreto-legge del 4 ottobre 2018 n.113 contenente “Disposizioni urgenti in materia di protezione internazionale e immigrazione, sicurezza pubblica [e altro]”, approvato dal Consiglio dei ministri il 24 settembre 2018 ed entrato in vigore il 5 ottobre 2018.

    Sebbene mentre scrivo la fisionomia definitiva del decreto sia ancora incerta, è lecito cogliere una contraddizione di fondo: si procede in via urgente a una revisione profonda del diritto in materia di immigrazione e di asilo, adducendo a giustificazione una situazione di intollerabile emergenza. Ma se ci basiamo sui dati, emerge un quadro certo non privo di problemi, in cui però i flussi misti alle frontiere marittime sono in calo (sebbene con un tasso di mortalità crescente), le statistiche sulla criminalità (sia nativa che immigrata) non registrano impennate, mentre quelle in materia di impiego segnalano miglioramenti modesti ma costanti.

    Quella che scompare - o meglio, viene rimossa – nella narrazione dominante, è dunque l’immigrazione “normale, quell’immensa maggioranza silenziosa e produttiva che, dopo aver assorbito buona parte dello shock della crisi, sta faticosamente riprendendosi e cercando, come vedremo tra un attimo, nuove piste di integrazione. Oltre che gretta, questa rimozione è miope, perché depotenzia uno dei pochi fattori di dinamismo diffuso su cui un paese sempre più vecchio e stanco potrebbe investire per rinnovarsi” .

    Se un decennio di crisi ha indubbiamente assottigliato le basi economiche del modello migratorio italiano, ha anche ridotto gli incentivi a entrare o permanere in condizioni di irregolarità, tanto che, secondo alcune stime, la quota di irregolari sulla presenza immigrata totale sarebbe passata “dal rappresentare più della metà (55,9%) del totale della popolazione straniera residente nel 2002, al 6,7% nel 2010 e al 9,7% nel 2017”[4].

     

    Più integrati e più esclusi

    In questo contesto di immigrazione matura, quasi interamente regolare e a crescita debole - molto lontano dunque da una situazione di “invasione” - stanno però cambiando le precondizioni strutturali dei processi di integrazione.

    Per un verso, su un piano strettamente giuridico, il semplice fatto dell’“invecchiamento migratorio” (cioè, non in termini anagrafici, ma di anzianità di presenza in Italia) della popolazione immigrata conduce, nonostante la mancata riforma delle regole in materia di cittadinanza, a un massiccio processo di inclusione formale. Questo ha portato al paradosso per cui, nel 2016 (ultimo anno per cui sono disponibili statistiche comparate a livello europeo), pur restando uno dei paesi con la legislazione più restrittiva, abbiamo anche avuto il record assoluto di acquisizioni (201.600, pari al 20 % del totale dell'UE-28; dati Eurostat), precedendo Spagna (150.900), Regno Unito (149.400 nuovi cittadini nell’anno), Francia (119.200) e Germania (112.800) .

    Se guardiamo, invece, alla dimensione socio-economica dell’integrazione, la capacità inclusiva del sistema italiano si è ridotta. Le profonde sacche di disoccupazione e inattività generate dalla crisi, sebbene ridimensionate (i disoccupati extra-UE sono calati del 7% nel 2017, gli inattivi del 3,6%), rimangono imponenti. D’altra parte, se è vero che l’occupazione è in moderata ripresa per tutti, sia immigrati che nativi, il rapporto tra le due componenti sta cambiando:

    “Nel 2017 il rafforzamento della capacità inclusiva del mercato del lavoro – parallelamente ad un netto riassorbimento dell’area della disoccupazione – interessa ancora una volta nativi e stranieri, ma a differenza del trend del biennio precedente per la prima volta il tasso di crescita dell’occupazione italiana è maggiore di quello dell’occupazione straniera considerata nel suo insieme. In sostanza, la centralità che la forza lavoro straniera aveva avuto nel sostenere su livelli positivi i trend occupazionali sembra ridursi, in ragione di una più decisa crescita dell’occupazione nativa” [5].

    Inoltre, bisogna purtroppo rilevare che il lavoro non basta più a proteggere dalla povertà; per gli stranieri, maggiormente colpiti da sotto-inquadramento e discriminazione, questo triste paradosso è ancor più vero che per i giovani italiani.

    I segnali di un processo di pauperizzazione di massa degli immigrati, pienamente in corso, sono molteplici. Nel suo Rapporto 2017, ISTAT rilevava, alla luce di una serie di indicatori d’allarme quali l’essere in arretrato con pagamenti o il non riuscire a fare un pasto adeguato almeno ogni 2 giorni, che il rischio di povertà o esclusione sociale era doppio per le famiglie con almeno un componente straniero (49,5% del totale) rispetto a quelle di soli italiani (26,3%). Secondo il l’Ottavo Rapporto del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, nel 2017, “la quota di famiglie prive di fonti di sostentamento economico derivanti da una qualsivoglia attività lavorativa, presente o passata” è quasi doppia tra le famiglie straniere rispetto alla media nazionale: 13,5% per le famiglie di soli cittadini “comunitari” e 13,4% per quelle di soli “extracomunitari”, a fronte di una media nazionale del 7,6% .

    La vera emergenza, insomma, anche in prospettiva[6] , non è l’immigrazione, ma l’integrazione di tutti coloro, giovani nativi o immigrati, che in questi anni sono stati spinti sempre più in basso, in una piramide sociale sempre più ripida e difficile da scalare. E’ questa, e non altre, l’emergenza con cui la società piemontese dovrà misurarsi nei prossimi anni.

     

    Parole chiave: Immigrazione, integrazione

     

    [1] Queste ed altre statistiche in materia possono essere estratte ed elaborate attraverso la sezione interattiva del sito di Eurobarometro: http://ec.europa.eu/commfrontoffice/publicopinion/index.cfm/Chart/index.

    [2] Istituto Cattaneo, Immigrazione in Italia: tra realtà e percezione, agosto 2018.

    [3] S. Strozza, L’imbroglio statistico: i dati della propaganda politica contro gli stranieri (e gli italiani), Neodemos, 4 settembre 2018.

    [4] A. Buonuomo, A. Paparusso, Irregolari, sanatorie e rimpatri: qualche numero di sfondo, Neodemos, 27 luglio 2018

    [5] Ministero del lavoro e delle politiche sociali, Ottavo Rapporto annuale 2018.

    [6] Si vedano gli scenari elaborati da Benton, M, e L. Patuzzi, Jobs in 2028. How Will Changing Labour Markets Affect Immigrant Integration in Europe?, Migration Policy Institute Europe – Robert Bosch Stiftung, ottobre 2018, https://www.migrationpolicy.org/research/jobs-2028-changing-labour-markets-immigrant-integration-europe.

     

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