di Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo. (Ires Piemonte)
L’ascesa della nuova generazione di tecnologie digitali interroga da anni futuro e ruolo del lavoro nella società. Stime allarmate sulla sostituibilità delle occupazioni convivono con approcci che sottolineano il carattere frizionale della disoccupazione tecnologica. Oltre la pseudo opposizione tra umani e macchine, stabilito che dinamica e geografia del lavoro originano solo in parte da fattori tecnologici, i timori per l’occupazione sembrano porre in secondo piano i cambiamenti qualitativi del lavoro.
Secondo alcuni modelli il cambiamento tecnologico sospingerebbe l’upgrade delle qualifiche e l’incremento del contenuto cognitivo del lavoro, secondo altri uno spostamento dalle attività codificate di qualsiasi livello a quelle che domandano conoscenze o abilità non di routine o, ancora, una tendenza alla polarizzazione tra professioni high-skilled e low-skilled. Sul versante critico, si è rimarcato come i manager dispongano oggi di mezzi di controllo che “Taylor poteva solo sognare” (Brown e Lauder, 2013), come l’incorporazione di conoscenza in software abiliti forme di digital taylorismo l’emergere di un “capitalismo di sorveglianza”. Obiettivo di questo contributo è fornire una sintetica selezione di temi rilevanti per l’analisi delle trasformazioni del lavoro, attingendo da costrutti teorici e dai risultati di alcune indagini empiriche in ambienti esposti alla digital transformation [1].
Tre questioni aperte
La via italiana a Industria 4.0 è rappresentata dalla necessità di adattare al contesto industriale nazionale l’approccio innovativo della “fabbrica intelligente”. Coniugando le nuove tecnologie con un know-how produttivo consolidato è infatti possibile raggiungere maggiore efficienza e produttività e ampliare l’offerta, purché si tengano in adeguata considerazione alcune caratteristiche specifiche del sistema italiano: le piccole dimensioni delle imprese, il vantaggio competitivo basato sulla leadership di nicchia, la talvolta limitata capacità di investimento.
La riflessione muove dall’interrogativo non aggirabile sui confini del lavoro nell’economia digitale; le nuove tecnologie, più che abolirlo, sembrano infatti decentrarlo nella società. Attività in apparenza “assorbite” dai nuovi dispositivi (si pensi a banche, distribuzione, servizi retail) sono in realtà divenute “lavoro ombra” svolto dagli utilizzatori. L’eccezionale sviluppo delle reti e della potenza di calcolo, inoltre, muta il rapporto tra economia e vita quotidiana: le persone, le macchine e gli oggetti emettono informazioni al punto che “non sono più tanti i gesti – acquisti, decisioni professionali – non orientati da un’infrastruttura di calcoli” (Cardon, 2019). Il coinvolgimento del pubblico nei processi produttivi, che sia consapevole o non intenzionale, è la prima e forse più rilevante innovazione della nuova economia.
Seconda grande questione, il lavoro si scompone e ricompone in nuove configurazioni, in cui le imprese sono meno che in passato l’unità più adatta per osservarne la trama, poiché inserite in sistemi del valore a crescente complessità. L’assemblaggio produttivo emergentesi basa sull’interazione sistematica tra produttori finali, fornitori di beni, servizi e conoscenza spesso spazialmente dispersi, fino al pulviscolo di micro-jobs organizzati da piattaforme che pongono nuovi dilemmi regolativi.
La terza questione riguarda la modificazione delle attività svolte all’interno delle imprese, sempre più spostate verso:
- laconcezione e predisposizione dei cambiamenti, che moltiplicano la popolazione di agenti (R&D, progettazione, engineering) che attrezzanol’innovazione;
- le funzioni di “retroscena” al serviziodelle attività dirette: processisti, manutentori, addetti a settaggio, analisi dati, controlli qualità, logistica, sistemi informativi, ecc.;
- ildialogo con i mercati e la relazione o cattura del cliente: advertising, consulenza, assistenza e sempre più data analysis, predizione e profiling;
- attività, che incorporano componenti relazionali o affettive per ora meno esposte al digitale, legate alla cura, alla salute o alla riproduzione, nonché le prestazioni in cui non conviene “usare le macchine” e che formano parte significativa dell’occupazione (lavori domestici, riparazioni, servizi operativi).
Gli effetti della svolta digitale sulla qualità del lavoro
Queste trasformazioni favoriscono una transizione verso il knowledge working? Nonostante la crescita dei gruppi professionali superiori [2]- molto contenuta, però, in Italia – e l’innalzamento medio dei livelli educativi, le statistiche sugli occupati e l’osservazione sul campo non confermano in modo lineare questa visione.
Nellemedio-grandi imprese manifatturiere più indagini insistono sull’incremento della varietà dei compiti e dell’autonomia dei lavoratori (Cisl, 2017). Il blue collar “aumentato” evolve verso un profilo di “processista”: capacità di “usare il ciclo”, gestire variabilità ed eccezioni, più “visione” e conoscenza. In molti casi si osserva tuttavia un downgrading delle conoscenze domandate. Ancora più articolata la riflessione nel mondo dei servizi. In Italia, è da sottolineare, si osserva un limitato sviluppo dei settori knowledge intensive (sanità, educazione, business service evoluti) e il persistere di un terziario “povero” e destrutturato. Accanto allaprofessionalizzazione emergono – almeno nelle grandi organizzazioni o “fabbriche terziarie digitali” – anche perdita di autonomia e nuove forme di standardizzazione. In breve, a ridosso dei processi di cambiamento digitale, nelle imprese prende forma una nuova stratificazione tra attività prevalentemente esecutive e altre che combinano impegno cognitivo e autonomia decisionale.
Il tema dell’autonomia, in secondo luogo, si presta a letture ambivalenti. Esiste un diffuso accordo, infatti, circa una ritirata dei modelli gerarchici. Gestire la varietà richiede ambienti meno “verticali” e capaci di coralità e sinergia: ai lavoratori di ogni tipo si richiede di mettere in gioco le capacità personali oltre i confini del copione. Tutto ciò non esclude però nuove forme di controllo e di misurazione delle performance. Sempre meno i management prescrivono le operazioni, ma stabiliscono modi della cooperazione, obiettivi, scadenze lasciando – o ingiungendo– libertà nel problem solving e nelle decisioni operative. Autonomia e controllo, in breve, appaiono stretti in una “danza dialettica” (Huws, 2010).
In generale, sembra ridursi il valore attribuito alla specializzazione (ovviamente richiesta per le attività a superiore contenuto tecnico) a vantaggio dell’adattabilità e rapidità interpretativa dei ruoli, in cui prende forma un trade off tra conoscenze specifiche (che si acquisiscono con l’esperienza) e conoscenze generiche, che discendono da istruzione, attitudini e biografia personali. Il lavoro, laddove l’interazione con il digitale è più sviluppata, consiste più che in passato nell’applicazione di conoscenza codificata a situazioni differenti. Da ciò possono derivare importanti conseguenze. In primis, a dispetto della proliferazione nominale delle professioni, la replicabilità delle pratiche digitali sembra sospingere una tendenza alla uniformazione dei contenuti operativi. Su queste basi, la mobilità settoriale e aziendale appare meno vincolata da barriere cognitive e componenti tacite, argomento comunque da non assolutizzare, poiché la conoscenza che deriva da esperienza e interazione è tuttora insostituibile complemento di quella science-based.
La svolta digitale pone dunque in tensione l’assetto dualistico (Detoni e Rullani, 2018) che separava il mondo dell’industria (a complessità ridotta) dall’ambiente sociale con la sua varietà, variabilità, indeterminazione. Da una parte il digitale “apre” la fabbrica rendendogestibile la varietà; dall’altra, “propaga” norme e modalità organizzative dell’industria “all’economia dei servizi [...] e perfino all’economia delle idee” (Veltz, 2017). L’integrazione tra modalità “industriali” (riduzione della complessità, uniformazione, replicabilità) e domanda di personalizzazione e varietà sembra costituire la cifra del lavoro emergente.
Alcune qualità richieste
Queste tendenze trovano riflesso nelle preferenze normalmente espresse dai manager o responsabili delle risorse umane in ordine ai profili ricercati. Tra i temi ricorrenti, particolare valore è normalmente attribuito ad alcune qualità trasversali – non legate alle specifiche tecnico-professionali – che pongono al centro, oltre ad una buona istruzione di base, prerogative in precedenza confinate nella sfera personale.
- Appropriata“confidenza” con le tecnologie e i dispositivi digitali. Su questo tema si tende talora ad enfatizzare la complessità delle conoscenze domandate. Naturalmente, nelle organizzazioni intelligenti si domandano figure specialistiche in grado di istruire i processi, analizzarne gli output e valorizzare l’infrastruttura digitale; ciò che è richiesto a tutti, però, è un’alfabetizzazione e una consapevolezza dei principi di funzionamento delle tecnologie digitali.
- Attitudinealla polivalenza e al cambiamento.
- Capacitàdi lavorare in team, interloquire con altre specializzazioni, sviluppare cooperazione e sinergia.
- Un certo grado di coinvolgimento personale, interpretabile secondo i casi come partecipazione consapevole o adesione quasi “affettiva” ai valori aziendali.
Tra smart working e intensificazione
A molti lavoratori dipendenti, lo sviluppo delle tecnologie informatichedarà la possibilità di de-standardizzare l’orario oltre il “regime del cartellino”, a favore dello smart working e di una flessibilità potenzialmente vantaggiosae di apprezzabili effetti di domestication [3], a fronte di modalità eque di superamento del tempo come unità di misura esclusiva della prestazione. Tutte le ricerche, viceversa, tematizzano una tendenza all’intensificazione del lavoro. Da qui la crescente rilevanza di patologie legate allo “stress” e l’individuazione del “carico di lavoro” come dimensione in cui si rileva un saldo negativo tra miglioramento e peggioramento delle condizioni (Marini, 2016). L’intensificazione è abilitata dalle nuove tecnologie, ma più determinanti sono i fattori organizzativi quali uniformazione, flessibilità funzionale o anche conferimento di autonomia che può incentivare forme di “auto-intensificazione”.
Conclusioni
Molti degli approfondimenti empirici utilizzati nel contributo sono stati realizzati in imprese del Piemonte, che nel panorama italiano è tra le regioni il cui apparato produttivo è maggiormente coinvolto dai cambiamenti descritti, stante il ritardo “digitale” del paese nei confronti internazionali. Tuttavia, per stimare quanto le tendenze descritte si calino nel contesto piemontese occorrerebbero adeguati approfondimenti. E, d’altro canto, è anche evidente come i temi proposti abbiano implicazioni di policy al di fuori della portata regionale e spesso nazionale, interrogando le capacità stesse della politica (prima che delle politiche), delle relazioni industriali e degli attori sociali nel promuovere condizioni di sviluppo sostenibile delle innovazioni in corso. Per quanto la potenza degli attori in grado di orientare lo sviluppo tecnologico lasci pensare il contrario, esiste uno spazio non residuale per scelte regolative e organizzative intenzionalmente orientate a massimizzare la possibilità di convertire le conoscenze legate al digitale in benessere collettivo. Il futuro, anche quello del lavoro, non è mai del tutto scritto. Alla luce delle argomentazioni portate, prima del sistema della formazione professionale (già ingaggiato nella progettazione di percorsi coerenti con le attese del settore produttivo), i cambiamenti in corso sollecitano il mondo dell’istruzione, chiamato a formare, per riprendere un motto di Edgar Morin “teste ben fatte piuttosto che ben piene”. In secondo luogo, sperimentazioni territoriali in ambito regolativo o contrattuale potrebbero incentivare iniziative volte a realizzare equilibri avanzati tra il surplus di efficienza e d’innovazione promesso dagli algoritmi e la possibilità, attraverso un loro uso responsabile e sostenibile, di migliorare il loro impatto sulla vita delle persone.
Bibliografia
Brown P., Lauder H. (2013), Auctioning the future of work, World Policy Journal, Vol. 30 (2): 16-25.
Cardon D. (2019), Che cosa sognano gli algoritmi, Mondadori Education, Milano.
Cisl (2017), Le tecnologie e il lavoro che cambia. Uno studio della Cisl, Edizioni Lavoro, Roma.
De Toni A., Rullani E. (a cura di) (2018), Uomini 4.0: Ritorno al futuro. Creare valore esplorando la complessità, Franco Angeli, Milano.
Huws U. (2010), Expression and Expropriation: the Dialetics of Autonomy and Control in Creative Labor, Ephemera,Theory and Politics in Organization,10 (3-4): 504-521.
Marini D. (2016), Lavoratori imprenditivi 4.0. Il lavoro nell’epoca della quarta rivoluzione industriale. Rapporto di ricerca. Community Media Research.
Veltz P. (2017), La société hyper-industrielle. Le nouveau capitalisme productif,Éditions du Seuil, Paris.
Note
[1] Quando non sono indicati riferimenti bibliografici si fa riferimento a ricerche partecipate dall’autore del contributo, nel settore manifatturiero (parzialmente pubblicate in Magone e Mazali, a cura di, Industria 4.0. Uomini e macchine nella fabbrica digitale, Guerini Associati, Milano2016; Il Lavoro che serve,Guerini Associati, Milano2018), nel settore bancario (Cominu, Tutti knowledge worker?, Sociologia del Lavoro N. 151, 2018) o in altre indagini i cui risultati consentono di essere utilizzati anche ai fini del presente contributo.
[2] Nella classificazione internazionale ISCO corrispondenti a: manager, professional e tecnici superiori.
[3] Il termine fa riferimento, in questo caso, alla progressiva sovrapposizione tra tempi e luoghi tradizionalmente dedicati al lavoro (orario di lavoro, ufficio) e alla vita privata (tempo libero, casa, riproduzione), che secondo i casi può essere interpretata in senso negativo (come “colonizzazione” del lavoro sulla vita quotidiana) o positivo (come maggiore possibilità di armonizzare tempi di lavoro e di vita).
Parole chiave: professioni, capacità, lavoratori