Gli Ambiti Integrati Territoriali (AIT) per le Politiche del Piemonte.

    di Giuseppe Dematteis (Professore emerito, già ordinario di Geografia urbana e regionale nel Politecnico di Torino)

    Gli Ambiti di integrazione territoriale (AIT) vennero suggeriti all’assessore Sergio Conti e ai funzionari dell’ufficio competente[1] dai consulenti del Dipartimento Territorio del Politecnico di Torino (coordinati da chi scrive) e individuati poi in fase di elaborazione (2005-’06) del Piano Territoriale Regionale (PTR) approvato nel 2011. Gli AIT erano pensati come i “mattoni“ del PTR, che considerava tre livelli sub-regionali: quello dei “quadranti” (Nord-Est, Sud-Ovest, Sud-Est e Metropolitano), quello delle Province e, all’interno di esse, quello di 33 sistemi territoriali locali, detti appunto AIT.

    Essi erano pensati come aggregazioni intercomunali stabili di soggetti privati e pubblici, che - di loro iniziativa o perché sollecitati dall’esterno – potevano contribuire a realizzare gli obiettivi del PTR, mettendo in valore le risorse territoriali presenti nell’ambito in cui essi operavano. La dizione “territoriali” non si riferiva solo al fatto che gli AIT erano circoscrizioni territoriali, ma anche e soprattutto alla loro capacità,  come attori collettivi (o come coalizioni di attori) di conoscere e mettere in valore il capitale territoriale locale, cioè quell’insieme di elementi e di condizioni materiali e immateriali di ogni territorio le quali hanno le caratteristiche di essere date (non realizzabili a piacere nel breve-medio periodo), stabili (si sedimentano e permangono nel tempo), specifiche (proprie di quei luoghi) e immobili (non trasferibili, perciò fruibili solo in loco).  

     

    Gli AIT

    La delimitazione degli AIT venne decisa in base criteri di omogeneità funzionale. Anzitutto dovevano essere spazi nei quali le persone, possibili attori dello sviluppo locale, non solo avessero interessi comuni legati al loro territorio, ma avessero anche molte probabilità di conoscersi, di avere tra loro contatti diretti anche informali, fin a condividere una qualche identità locale. Era quindi essenziale che ogni AIT  presentasse un buon auto-contenimento dei flussi  dovuto a qualche forma stabile, ricorrente di circolazione interna , per cui si è partiti analizzando i movimenti abituali delle persone dovuti alle gravitazioni per servizi e per lavoro sui centri urbani di livello provinciale o sub-provinciale. Nell’individuarli, oltre alle aggregazioni stabili già esistenti come le Comunità montane e collinari, sono stati tenuti presenti  i sistemi locali del lavoro dell’Istat, i distretti industriali, le sub-aree identificate in alcuni PTC provinciali, le aree di diffusione della stampa periodica locale, gli ambiti dei grandi progetti di trasformazione infrastrutturale e urbana e gli “ambiti di paesaggio” che venivano contemporaneamente individuati nell’elaborazione del Piano paesaggistico regionale.

    Gli AIT, così delimitati e verificati con gli uffici competenti delle Province, sembravano avere buone probabilità di poter agire come protagonisti locali di uno sviluppo “dal basso”, cioè della strategia community led local development indicata dalla programmazione europea di quegli anni (divenuta poi place-based strategy). Con essi si mirava a costruire un’architettura di governance rivolta a:

    1) promuovere la progettualità e l’agire collettivo a partire dai legami sociali e territoriali esistenti;

    2) individuare lo stato attuale di questi legami e valutare la possibilità di attivarli o rafforzarli;

    3) valutare in itinere ed ex post il “valore aggiunto territoriale” della progettualità locale, cioè la sua capacità di creare nuovo valore (d’uso o di scambio) a partire dal capitale territoriale locale, incrementandone al tempo stesso la dotazione;

    4)  valutare la sostenibilità territoriale dei progetti;

    5) definire politiche e piani a scala regionale basati sulla messa in rete degli AIT stessi, assegnando loro compiti propositivi nei processi di programmazione negoziata, co-pianificazione e sviluppo locale.

    Il modello concettuale degli AIT aveva come matrici le teorie dello sviluppo locale elaborate tra gli anni Settanta e i primi Duemila da economisti, sociologi, politologi, geografi e urbanisti. La sua adozione nel PTR faceva parte di una tendenza affermatasi nel ciclo di Programmazione 2000-2006, per cui, accanto al più tradizionale approccio settoriale, si andava delineando un approccio alla programmazione dello sviluppo fondata sull’individuazione di territori sub-provinciali come unità di progettazione integrata degli interventi. Essa si avvantaggiava delle esperienze già acquisite grazie alle politiche nazionali e regionali di sviluppo locale intersettoriale e di riqualificazione urbana che si avvalevano di strumenti come i Patti territoriali, i Progetti integrati di area (PIA), i Programmi di recupero urbano e sviluppo sostenibile del territorio (PRUSST), i Piani integrati di sviluppo locale (PISL), ecc. e in particolare con i Programmi integrati territoriali (PIT), adottati  a livello nazionale per la Programmazione  dei Fondi strutturali europei 2000-2006 e 2007-2013 e divenuti in quegli anni gli assi portanti della nuova politica di sviluppo del Mezzogiorno.

     

    AIT e Programmazione negoziata

    La versione piemontese dei PIT aveva preso il nome PTI (Programmi territoriali integrati). In una pubblicazione della Regione venivano definiti “lo strumento con cui un’aggregazione di attori locali formula un’idea di sviluppo ed elabora un programma di interventi condiviso per valorizzare le potenzialità dei sistemi economici e sociali (…) anche per contribuire ai processi e pianificazione dei diversi livelli di governo, al fine di stabilire gli obiettivi assegnati ai sistemi territoriali locali individuati dal Piano Territoriale Regionale[1] (corsivo mio, che vuole sottolineare l’originaria intenzione di attivare gli AIT nelle politiche di programmazione regionali).

    Durante la redazione del PTR venne condotta un’analisi dettagliata della risposta dei territori alle politiche regionali di sviluppo locale: patti territoriali, piani di sviluppo Leader, PIA, Pisl, PTI. Essa dimostrò che queste politiche avevano successo là dove c’era una certa stabilità e continuità di azione dell’attore collettivo territoriale, fondata su certe condizioni oggettive e soggettive. Condizione oggettiva imprescindibile risultò essere un buon grado di coesione territoriale e quindi di una rete infrastrutturale che rendesse agevoli le gravitazioni per servizi e per lavoro sui centri principali degli AIT. Condizioni soggettive: dotazione di capitale sociale, capacità istituzionale e di auto-organizzazione di soggetti pubblici e privati, senso di appartenenza ai luoghi, idee progettuali e apertura alle innovazioni. La delimitazione territoriale doveva soddisfare a entrambe queste condizioni.

    In realtà AIT e PTI, pur nascendo nella stessa legislatura regionale (2005- 2010, Giunta Bresso) e pur rispondendo entrambi a obiettivi di sviluppo locale, seguirono due cammini paralleli, ma praticamente distinti tra loro per i contenuti e per le procedure di individuazione degli aggregati territoriali. Mentre negli AIT questi ultimi erano decisi “dall’alto”, nei PTI si formavano attraverso un procedimento in cui l’aggregazione territoriale avveniva “dal basso” ed era funzionale a progetti che venivano poi selezionati “dall’alto” per essere finanziati. Di conseguenza, pur essendo quasi uguali come numero (33 gli AIT e 30 i PTI), essi si basavano su aggregazioni intercomunali che presentavano delle notevoli differenze. Tuttavia di fatto ci fu qualche significativa, anche se parziale, coincidenza tra loro. Essa avrebbe potuto essere maggiore se le norme del PTR non avessero escluso la possibilità di creare AIT a cavallo di due province.

    Da questo confronto si possono trarre due indicazioni. Una è che gli AIT, pur essendo stati decisi a tavolino, mostrano - nella loro aspirazione a funzionare come possibili attori collettivi dello sviluppo locale – una certa corrispondenza con le scelte e le aspettative espresse dai territori in risposta ai bandi PTI.  L’altro è che un’analisi valutativa ex post dei PTI può dare indicazioni preziose per fare degli AIT – come era nelle intenzioni del PTR -  i co-protagonisti place-based di una politica regionale di pianificazione e di sviluppo.

     

    Per concludere

    Il rapporto dell’IRES “I programmi Territoriali Integrati in Piemonte” del marzo scorso capita a proposito, in quanto ha come scopo di stabilire “se l’approccio dei PTI è stato utile ai fini dello sviluppo locale, dell’integrazione di politiche e della costruzione di capacità amministrative e istituzionali” e “se tale approccio possa essere riproducibile e utile ancora nel prossimo settennio”. L’analisi, molto dettagliata e approfondita ha messo in evidenza i vari aspetti, positivi e negativi legati all’uso di questi strumenti. La conclusione è che, non ostante il suo percorso attuativo piuttosto travagliato (crisi economico-finanziaria del 2008, cambiamento politico del governo regionale 2011) la programmazione integrata territoriale presenta nel complesso risultati positivi, migliorabili con alcune modifiche che vengono proposte nelle raccomandazioni conclusive del Rapporto.

    Una di queste riguarda il confronto tra le aggregazioni dei PTI e quelle degli AIT. Questi ultimi vengono giudicati oltre che “più teorici che pratici”, anche “rigidi soprattutto per la loro divisione che ricalca in maniera ortodossa i confini provinciali”. A questo proposito ricordo la battaglia che, come consulenti territorialisti del PTR, avevamo ingaggiato (e perso) con i consulenti giuristi, che escludevano la possibilità di introdurre nel Piano norme che prevedessero AIT a cavallo di più province.

    Mi pare comunque molto importante che l’analisi dell’IRES prospetti “la possibilità di introdurre opportuni percorsi di adeguamento alla geografia degli AIT in modo da renderli più flessibili e coerenti con le pratiche avvenute degli ultimi 15 anni”. Mi pare che ciò significhi restituire loro le funzioni per cui erano stati pensati, rendendoli finalmente attivi nelle politiche regionali place-based.

     

    [1] Regione Piemonte, Direzione Programmazione strategica, politiche territoriali ed edilizia, I programmi territoriali integrati in Piemonte. Coalizioni, progetti e governance dell’attuazione. A cura di LaPo e Corerp, Torino, settembre 2010, p. 3

     

    [1] Sergio Conti, docente presso l’Università di Torino e già Preside della Facoltà di Economia (2003-2005), è stato Assessore regionale alla Programmazione strategica, Politiche territoriali, Beni ambientali, Politiche per la casa della regione Piemonte nel periodo 2005-2010.  

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