Così lontano, così vicino: dal Piemonte polarizzato a quello della varietà

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    Sessant’anni fa, nel maggio del 1958, nasceva l’IRES Piemonte. La guerra era un ricordo vicino, ma il 1° gennaio di quell’anno la firma del Trattato di Roma lasciava intravedere un mondo nuovo. Fu in quel momento, nel contesto del cantiere europeo e in un’Italia dove una crescita del 5% annuo diffondeva ottimismo 

     

     Fu in quel momento, nel contesto del cantiere europeo e in un’Italia dove una crescita del 5% annuo diffondeva ottimismo ma creava anche squilibri territoriali e settoriali sempre più evidenti, che un gruppo di riformisti ritenne necessario dare all’intervento pubblico una strategia. Questo implicava conoscenze, numeri, misure dei fenomeni, confronti nazionali e internazionali.

     

    20 anni di clima d’opinione - La soddisfazione per l’anno trascorso

    Un primo utile sguardo retrospettivo abbraccia gli ultimi 20 anni, un periodo che include tanto gli anni della crisi quanto quelli precedenti e immediatamente seguenti. Nel 1998 l’IRES Piemonte conduceva la prima indagine sulle opinioni dei piemontesi. Ripetuta ogni anno, questa indagine offre oggi una fotografia importante relativa a molti aspetti della nostra vita collettiva.

    Osservare il saldo fra soddisfatti e insoddisfatti per l’andamento economico, nazionale e familiare, dell’anno appena trascorso, in un arco di vent’anni (figura 1) suggerisce tre considerazioni.

    Insoddisfatti già prima della crisi. In primo luogo, ci aiuta a uscire dalla trappola logica del “quando torneremo come prima”. In altre parole, si fanno spesso confronti fra la situazione attuale dell’economia o della fiducia dei cittadini e l’analogo livello del 2007 o del 2008, ossia all’inizio della crisi, come se l’obiettivo fosse tornare a quel punto. L’osservazione dei dati ventennali mostra come che il calo di soddisfazione sia cominciato molto prima. Segno che la crisi ha aggravato tendenze che erano già in corso.

    La soddisfazione torna ad alzarsi. Anche l’andamento tendenziale offre un importante spunto di riflessione. Fra inevitabili alti e bassi, la curva della soddisfazione si è abbassata di livello, ma adesso sta tornando a crescere ed è oggi a valori ben più alti di quelli immediatamente precedenti la crisi. Qualcosa, fra natimortalità selettiva delle imprese e nuovi investimenti per aumentare la competitività, si è fatto, o comunque è successo. Di ciò resta traccia nelle percezioni delle persone.

    Minore distanza tra il bilancio sull’Italia e quello della propria famiglia. Il terzo aspetto riguarda la distanza fra il giudizio sulle condizioni generali del Paese e quello sulla propria famiglia. Essere più pessimisti o meno soddisfatti quando si tratta degli altri, o si ragiona in termini astratti, è normale. Si osserva questo fenomeno persino sulla sicurezza, dove il rischio di reato è percepito sempre come più elevato altrove che nel proprio quartiere. Il motivo è che quando si deve formulare un giudizio sulla propria famiglia, o sul proprio quartiere, si tende a farlo su una buona conoscenza dei dati di fatto, mentre delle condizioni generali dell’Italia si ragiona soprattutto per sentito dire. Il fatto che la distanza fra le due curve, massima nel cuore della crisi, stia tornando a ridursi è un buon segno. La situazione sta effettivamente migliorando rispetto agli anni neri della crisi e, sebbene in ritardo, l’opinione pubblica ne sta progressivamente assumendo consapevolezza.


    Figura 1 Soddisfazione per l’andamento economico dell’anno trascorso

     

    Fonti: Clima di opinione IRES 1998-2018

     

    Che fine ha fatto il futuro?

    Osservando le previsioni dei cittadini sul futuro dell’Italia o della propria famiglia, sempre sotto il profilo economico, emerge con evidenza il calo dell’ottimismo (figura 2). Anche in questo caso possiamo avanzare tre considerazioni.

    Le radici (lunghe) del nostro pessimismo. L’andamento generale della curva dell’ottimismo è declinante ma non ha a che vedere con la crisi o non solo: arriva da lontano, come nel caso della valutazione personale del bilancio passato. Invecchiamento della popolazione e scarsa capacità di offrire prospettive strutturali di sviluppo hanno giocato un ruolo cruciale che la crisi ha solo accentuato.

    Sempre meno ottimisti. Il declino è forte, passando da valori superiori al 25% (che corrispondeva a 7 ottimisti ogni 3 pessimisti nel 1998) a 0.80 (corrispondente a 4 ottimisti per 6 pessimisti oggi). La ripresa nel periodo più recente c’è, ma è debole. È vero che osservando la differenza fra giudizio sull’anno passato e previsioni sul futuro si registra sempre un saldo positivo (è andata male ma andrà meglio, in parole semplici) ma questa distanza, che segnala un ottimismo di fondo, se cresceva prima della crisi, negli anni più difficili è rimasta più o meno stazionaria ed è ora in declino.

    Poca speranza per l’Italia, ma anche per la propria famiglia. La distanza fra ottimismo sul destino dell’Italia e su quello la propria famiglia è comunque modesta (oltre che in calo). In entrambi casi, la visione su quel che accadrà si basa in prevalenza, più che su osservazioni oggettive, sulla propensione di vedere nel futuro la possibilità di migliorare lo stato delle cose. Sia a livello personale, che a livello generale. D’altra parte la speranza è una condizione psicologica che non ha bisogno, per esistere, di dati di fatto.

    Come abbiamo già messo in evidenza, da diversi anni la capacità di nutrire speranza appare seriamente compromessa. Tanto da chiedersi, per riprendere il titolo del libro di Marc Augè, che fine abbia fatto il futuro.


    Figura 2. Ottimismo per l’andamento economico dell’anno che verrà

     

    Fonti: Clima di opinione IRES 1998-2018

     

    60 anni di ricerca sul Piemonte

    La prima relazione socioeconomica dell’IRES, nel 1959, descriveva Torino come “una grande città industriale — centro di attrazione di una forte immigrazione — e intorno a questa, un territorio che possiede tutte le più diverse caratteristiche del suolo, pianura, collina, montagna, al centro di una regione sulla quale, per vaste zone, operano differenti forze di gravitazione.”

    Varietà e centri di gravità appaiono già come elementi chiave del carattere dell’intera regione. Buona parte di quella prima relazione si focalizzava sugli effetti che i secondi potevano avere sulla prima.

    Il rapporto si preoccupava degli effetti di uno sviluppo, soprattutto industriale, non equilibrato, e le conclusioni indicavano il “diseguale sviluppo economico delle diverse zone” come primo problema e lo “sviluppo maggiormente differenziato dell'industria” come una possibile soluzione.

    Pochi grandi centri di gravitazione. Questa visione riflette in modo evidente l’approccio industrialista dell’epoca, peraltro giustificato dal ruolo propulsivo e dalla capacità di trasformazione sociale che la manifattura aveva a fine anni Cinquanta. Ha però il pregio di suggerire un chiave di lettura del Piemonte ancora utile.

    All’epoca la nostra regione appariva all’IRES come uno scrigno di grandi varietà investita da potenti forze di gravitazione (non solo la Fiat a Torino, se si pensa al ruolo di drenaggio demografico e sociale dell’Olivetti verso le valli dell’eporediese). Questo comprometteva lo status quo in termini di equilibrio demografico, settoriale, di reddito.

    Come si presenta la regione 60 anni dopo?

    L’emergere della varietà. Il Piemonte di ieri si poteva descrivere con la parola chiave polarizzazione, sottoposto com’era a forze gravitazionali rilevanti (Torino e l’auto prima di tutto, ma l’industria e la concentrazione abitativa verso le città in generale). Quello di oggi, al contrario, sembra talvolta meglio descritto da una polarizzazione meno marcata e che può assumere i caratteri della frammentazione in alcuni casi o della differenziazione e della varietà in altri.

    Delle tante trasformazioni che hanno interessato il Piemonte negli ultimi sessanta anni, quella forse più silenziosa e discreta, ma non meno pervasiva di grandi fenomeni come l’invecchiamento o e migrazioni, è l’aumento della varietà.

    Qualche esempio può chiarire questo punto.

     

    Primo esempio: il turismo

    Il turismo di ieri. Il turismo dell’epoca fordista comportava spostamenti massicci di persone dai centri urbani verso le località di vacanza. Tutto si concentrava nel mese di agosto, quando le fabbriche chiudevano, le città si svuotavano e le famiglie - indipendentemente dalla classe sociale di appartenenza – passavano lunghi periodi al mare o in montagna. Questo flusso richiedeva la presenza di strutture di accoglienza capaci di sfruttare economie di scala: grandi e verticalmente integrate (per esempio dotate di servizi interni di ristorazione, di pulizia o altro in grado di contare su numeri precisi di utenti).

    Il turismo di oggi. Il turismo esprime oggi una domanda molto più frammentata nel tempo e nello spazio. Qualsiasi posto, in teoria, può essere una destinazione turistica, in qualsiasi momento dell’anno (turismo multi-specializzato: culturale, sportivo, enogastronomico). La domanda di questo tipo di turismo è cresciuta anche in seguito all’aumento nella popolazione di persone anziane, con molto tempo libero, in relativa buona salute e sufficientemente ricchi da permettersi una “vita in vacanza”. L’accorciamento progressivo della durata delle permanenze in una stessa destinazione (o la visita senza pernottamento) crea un’aleatorietà nella previsione della domanda che mette in crisi le grandi strutture e pone le condizioni per la crescita di una ricezione diffusa.

    Il turismo di domani. Le nuove strutture (B&B, agriturismo, affittacamere, anche in modalità sharing come AirB&B) non saranno una possibilità di ricezione di livello inferiore, che va a completare un ventaglio di offerte da ordinarsi in base al lusso e alla comodità: dall’albergo a 5 stelle, poi quello a 4, 3, 2, 1 e infine il B&B e il campeggio. Tipologie diverse dovranno rispondere a una domanda nuova e più articolata. Si dovrà trovare il modo di trasmettere alle strutture tradizionali la flessibilità di quelle nuove e non il contrario, ossia pretendere che siano queste ultime ad adeguarsi ai parametri di quelle pensate per il periodo fordista. Ciò significa azioni formative ad hoc, certificazioni semplici dal punto di vista burocratico perché devono incentivare la qualità di strutture che lavorano poco e per poche persone, ma in grado di muoversi con preavviso minimo. E la flessibilità non deve essere pensata solo per l’offerta low-cost: possono esistere B&B a 5 stelle. Il turismo outdoor e di scoperta avrà bisogno di una integrazione con la logistica e i trasporti diversa dal passato (come ad esempio efficienti modalità di accesso ad aree dove muoversi con modalità sostenibili) e dove il coordinamento fra domanda e offerta sarà cruciale.

     

    Secondo esempio: la mobilità

    La mobilità di ieri. In epoca fordista, i tempi di vita della collettività erano scanditi dal funzionamento della fabbrica (e della scuola). Raggiungere, quotidianamente, il luogo di lavoro o di studio era il principale motivo degli spostamenti. Le persone si muovevano tutti i giorni feriali, compiendo lo stesso tragitto, di andata e di ritorno più o meno alla stessa ora. Questo tipo di mobilità, richiedeva infrastrutture e servizi di trasporto opportunamente dimensionati per rispondere ai picchi di domanda. La concentrazione delle destinazioni in certe zone, consentiva economie di scala nell’erogazione di servizi di trasporto collettivi.

    La mobilità di oggi. Nella città odierna i tempi di vita della collettività si distribuiscono su una molteplicità di attività. Ci si sposta spesso, in orari diversi della giornata e per motivi diversi dal lavoro o studio. La mobilità non sistematica è cresciuta, quella per svago, acquisti e salute per sua natura variabile nel tempo e nello spazio. La stessa mobilità per lavoro ha perso le caratteristiche di regolarità del passato. Il lavoro è più flessibile; la sede può cambiare frequentemente e gli spostamenti avvenire in giorni diversi della settimana.

    Pur offrendo servizi efficienti lungo certi assi infrastrutturali, il trasporto collettivo convenzionale ha difficoltà a rispondere a una domanda di mobilità sempre più diversificata e l’automobile resta il mezzo di trasporto che meglio garantisce flessibilità e affidabilità dello spostamento. Sul fronte delle merci, i requisiti della logistica moderna (si pensi al just-in-time) e la diffusione dell’e-commerce portano a un aumento del numero di camion e/o di veicoli che circolano sulle strade per garantire consegne rapide e frequenti. In molte aree, il traffico raggiunge livelli preoccupanti, che mettono a rischio la salute delle persone, causano incidenti e hanno impatti negativi sull’ambiente.

    La mobilità di domani. I territori si avvicinano. Infrastrutture di trasporto, reti di comunicazione e servizi di trasporto sono integrati con gli insediamenti e offrono ai residenti una gamma di modi alternativi di spostamento, per muoversi agevolmente entro e fra i territori: percorsi pedonali e ciclabili, servizi di bus linea e di bus a chiamata, servizi di trasporto su ferro a media e lunga percorrenza, servizi di condivisione di veicoli (car, moto e bike sharing) e di tragitti (car pooling), servizi di taxi collettivo, e di navetta, ecc. L’ampiezza di tale gamma, dipenderà da diversi fattori:

    1. le caratteristiche insediative locali;
    2. la capacità dei territori (insieme di coloro che hanno una responsabilità nell’erogazione dei servizi di mobilità e dei fruitori) di governare il funzionamento dell’intero ecosistema dei servizi e sostenerne i costi;
    3. i livelli di qualità desiderati, dal punto di vista dell’affidabilità, della sicurezza, degli standard ambientali e della soddisfazione degli utenti.

     

     

     

     

     

    Per concludere: cosa ci insegna la crescita della varietà?

    La varietà compare in numerosi domini della ricerca socio-economica, segnando in questo una differenza con il passato che di per sé non è un miglioramento, né un peggioramento. Entrambe le tensioni, quella del passato verso la concentrazione e quella odierna verso la varietà, presentano problemi, che richiedono risposte diverse e politiche in molti casi più profilate. Nella tabella 1 sintetizziamo i settori e le tematiche che sono maggiormente interessate da questa trasformazione e rimandiamo alla relazione IRES per la trattazione più sistematica (https://www.ires.piemonte.it/index.php/relazione-annuale-2018).

    tabella 1 - Elementi di trasformazione che aumentano la varietà del Piemonte

     

    DOMINIO

    LA CRESCITA DELLA VARIETÀ

    Economia

     

    Produzione

    Dalle grandi industrie alle economie di nicchia

    Turismo

    Dal turismo sistematico a quello destagionalizzato

    Mondo rurale

    Dalla dicotomia città/campagna alle mille differenziazioni territoriali e allo sviluppo place based

    Lavoro e Società

     

    Lavoro

    Da un lavoro solo per tutta la vita a molti lavori per poco tempo

    Popolazione

    Dalla dinamica omogenea dei percorsi familiari al differenziarsi (non solo matrimoni religiosi, ma anche riti civili, coppie miste)

    Istruzione

    Ieri una netta separazione fra fase dell’apprendimento e del lavoro, oggi formazione continua e scuola/lavoro

    Immigrazione

     

    Immigrazione

    Interculturalità: da bilaterale a multilaterale Da un mondo di divisioni semplici (locali/meridionali) a multi-provenienza. Da trasferimenti di lunga durata a temporanei

    Salute

     

    Salute

    Ieri un sistema basato sull’ospedale, oggi un sistema differenziato sul territorio a fianco di ospedali sempre più specializzati. Tanti modi di fare prevenzione, dagli stili di vita all’alimentazione

    Mobilità e Territorio

     

    Mobilità

    Da mobilità pendolare a mobilità erratica

    Territorio

    Dalla logica città/campagna allo sprawl.
    Più attenzione ai mq di suolo consumati, ma anche alla qualità del costruito

     

     

     

     

     

     

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