di M. Cristina Caimotto (Università di Torino)
Introduzione
Se il 1900 è stato il secolo dell’auto, il secolo in cui viviamo è quello in cui smetteremo di usare l’auto privata nel modo in cui ci è familiare. Crisi climatica, innovazioni tecnologiche, cambiamenti negli stili di vita e organizzazione del lavoro sono tutti elementi che insieme spingono verso la dismissione di un sistema di spostamento del tutto inefficiente, gravemente dannoso e sempre meno sostenibile economicamente.
Eppure, nonostante la mole di dati che dimostra la necessità e i vantaggi di far aumentare la mobilità attiva per ridurre le morti causate da collisioni, inquinamento atmosferico e sedentarietà, le politiche per promuovere la ciclabilità sono un argomento profondamente divisivo. Poiché chi governa, a qualsiasi livello e da qualsiasi posizione politica, ha bisogno di consenso per riuscire a implementare politiche efficaci è necessario capire le radici profonde e complesse dell’ostilità diffusa verso la mobilità in bici per poter accompagnare in modo efficace il cambiamento. Questo articolo mette ordine tra le tante narrazioni, costruttive, distruttive e ambivalenti che ruotano intorno alla ciclabilità attraverso gli strumenti dell’ecolinguistica.
Di cosa parliamo quando parliamo di ciclabilità
Partiamo da un veloce riassunto dei motivi che dovrebbero spingere gli amministratori a ogni livello a promuovere la ciclabilità. Possiamo raccogliere quasi tutti gli argomenti in un insieme orientato al miglioramento e alla salvaguardia della vita e della sua qualità. Per primo viene l’argomento della salute, usare la bici come mezzo di trasporto per gli spostamenti quotidiani entro 5-8 chilometri rappresenta una pratica soluzione per raggiungere i 150-300 minuti settimanali di attività fisica moderata raccomandati dall’OMS. Distanza che può facilmente aumentare se la pedalata è assistita.
Un aumento delle persone che scelgono la bicicletta per spostarsi si traduce in una riduzione dell’inquinamento atmosferico e una riduzione delle collisioni stradali, sia perché i veicoli principalmente responsabili di investimenti letali sono le autovetture, sia per l’effetto noto come safety in numbers, che dimostra come, oltre una soglia critica, l’aumento delle persone a piedi e in bici ha un effetto calmierante sulle velocità tenuta da chi è in auto e permette il miglioramento della visibilità.
Scegliere la bicicletta ha inoltre ricadute positive sui tempi di spostamento, perché elimina la necessità di cercare parcheggio, e ovviamente sul risparmio economico. Se ci spostiamo sulle infrastrutture più rivolte allo svago, il cicloturismo ha dimostrato in più occasioni di poter attrarre investimenti in luoghi remoti e destagionalizzare la domanda di ospitalità, con il vantaggio di un tipo di turismo rispettoso dei luoghi e attratto da un’offerta variegata, culturale, ambientale, enogastronomica.
Di fronte a questa introduzione, sembrerebbe la proposta più facile da tradurre in politica per qualsiasi amministratore ma, ovviamente, chi ha esperienza di politica o attivismo sa quanta ostilità deve superare ogni metro di percorso ciclabile progettato. La prima barriera di cui tenere conto ha a che fare con la semiotica, una narrazione visiva e fisica prima ancora di essere linguistica. Si tratta della ripartizione dello spazio pubblico, riassumibile con l’adagio “le strade sono per le auto”. In realtà le strade sono diventate “delle auto” nella percezione dominante attraverso un processo di graduale appropriazione dello spazio attuato a partire dagli Stati Uniti ai tempi del Fordismo e poi in Europa con il piano Marshall e il boom del dopoguerra. L’esempio più ovvio è l’idea di aver diritto di occupare, quasi sempre gratuitamente, lo spazio pubblico con ingombranti oggetti di proprietà privata, una pratica riservata ai possessori di veicoli e vietata, se non a fronte di richieste protocollate di “occupazione dello spazio pubblico”, a chi volesse occupare quello spazio con qualsiasi altro oggetto.
Eppure, quando le persone hanno iniziato a vedere la strada, un tempo vero spazio pubblico in cui ci si incontrava, si giocava, si mercanteggiava, ceduta al traffico automobilistico le proteste sono state numerose. Un passaggio di natura semiotica, appunto. Strisce pedonali, righe dipinte, cartelli stradali, semafori, parchi giochi segregati: tutto rivolto alla rimozione delle persone dai percorsi che dovevano fare spazio alle auto private e dire alle altre persone che quello spazio non era più per loro. Si tratta quindi di una discriminazione nei confronti di una parte della popolazione, la parte più povera e meno in grado di acquistare e mantenere i costi di un’auto privata.
Iniziamo così a vedere che una delle narrazioni evocate dalla ciclabilità è legata al classismo. Si tratta tuttavia di una narrazione complessa con varie sfumature, a volte contradditorie. Se seguiamo l’evoluzione storica in ordine temporale, la bicicletta arriva prima dell’automobile e per alcuni anni è un oggetto costoso riservato a persone benestanti. Presto però l’industrializzazione la rende accessibile a molti mentre si diffonde l’auto privata, certamente più costosa. Quindi si crea il binomio auto per ricchi e bici per poveri, che in certi contesti ritroviamo ancora oggi. A questa narrazione però, in modo quasi paradossale, se ne affianca una moderna, secondo cui l’automobile è il mezzo popolare di cui tutti hanno bisogno e invece spostarsi in bicicletta è un lusso per la “gente che non lavora davvero”. E nel contempo oggi in molte città i cosiddetti “rider” rappresentano una delle categorie di lavoratori meno protette e meno pagate.
Succede quindi che l’introduzione di nuove piste ciclabili, se non accompagnata da un buon lavoro di preparazione e dialogo con la cittadinanza, viene osteggiata come un effetto di gentrificazione, di creazione di spazi per persone o troppo ricche o troppo povere ma comunque scollate dalla realtà di chi osteggia la nuova ciclabile. A questo punto abbiamo bisogno di andare un po’ più in profondità nelle narrazioni dell’automobile e i legami che ha con l’identità personale. Per prima cosa dobbiamo fare caso al modo in cui le pubblicità delle auto non danno praticamente mai informazioni sul prodotto che vendono, ma raccontano una breve storia che ha come protagonista una persona con cui il/la potenziale acquirente di quel modello vorrà identificarsi, sulla base di costose e complesse ricerche di mercato. Queste strategie di marketing non lasciano indifferente nessuno e contribuiscono a un discorso dominante che associa il possesso di un’automobile alla libertà, al successo e all’indipendenza. Strategie, bisogna riconoscerlo, molto riuscite se riescono a convincere le persone a investire, nell’arco della vita, la stessa quantità di denaro che spendono per la casa in cui abitano al fine di possedere alcuni veicoli che perdono valore in tempi relativamente brevi e passano mediamente il 96% del loro ciclo di vita fermi e inutilizzati.
Se nel subconscio associo la mia proprietà privata di un autoveicolo alla mia indipendenza, libertà e successo, percepirò qualsiasi impedimento all’uso dell’auto come un attacco personale contro cui devo lottare. E reagirò ai blocchi del traffico come se fossero divieti di spostamento della mia persona. Una dinamica narrativa che si è vista nella teoria del complotto del “climate lockdown” a Oxford, in Inghilterra, dove un piano per ridurre il traffico automobilistico comunicato male ha portato alcune persone a teorizzare che il lockdown del covid fosse un esperimento temporaneo applicato grazie all’invenzione del virus per poi applicare un lockdown permanente e un controllo totale attraverso l’invenzione del cambiamento climatico e della “tirannia verde”. La teoria del complotto è un punto estremo di una tendenza più moderata, ma molto più diffusa, che sovrappone il diritto alla libertà di movimento e il diritto alla libertà di movimento in auto come se fossero la stessa cosa.
Chi amministra un territorio e vuole modificare la mobilità deve tenere a mente queste narrazioni e costruirne di nuove, strutturando un nuovo messaggio intorno a temi universali. Narrazioni da costruire insieme alla cittadinanza, con un lavoro dal basso che associa la nuova mobilità a valori condivisi da tutte e tutti. È importante non attivare i valori già profondamente associati all’automobile, come libertà e indipendenza, ma attivare altri valori già esistenti e associarli alla mobilità attiva. Nel farlo è indispensabile ascoltare le necessità della cittadinanza e garantire alternative. Un esempio per tutti: se abito a 40 km dal posto di lavoro perché non ho i mezzi economici per cambiare questa situazione, il trasporto pubblico è inaffidabile e il mio unico modo per raggiungere la mia fonte di reddito è l’auto privata, percepirò ogni narrazione pro mobilità attiva come una provocazione classista e un’imposizione radical chic. L’unico modo per rendere interessante e funzionale la mobilità attiva è garantire un’ottima intermodalità; quindi, il mio viaggio di 40km deve essere percorribile comodamente con un mezzo pubblico con bici al seguito o con buoni servizi di sharing nei punti di partenza e arrivo e in entrambi i casi con la possibilità di percorrere in sicurezza in bicicletta o a piedi la distanza da e verso la stazione o fermata. Se manca l’intermodalità, qualsiasi ottima narrazione si trasformerà in “solo parole” con un effetto negativo sulla fiducia nelle istituzioni nel lungo periodo.
Il cambiamento però si può fare ed è già stato fatto in molti luoghi. Vale la pena di citare Sadiq Khan, sindaco di Londra che ha ottenuto il terzo mandato nel 2024 dopo una campagna elettorale in cui l’opposizione ha puntato molto contro la ULEZ (Ultra Low Emission Zone) da lui istituita, l’equivalente della ZTL italiana. Nel suo libro Respirare argomenta in modo convincente che il livello di potere politico che può avere la maggiore efficacia nel contrasto alla crisi climatica è quello dei sindaci, in grado di rispondere a livello locale con politiche adatte al territorio. La mobilità è il tema che può dare i risultati più efficaci e immediati. È importante tenere conto delle paure, del tutto razionali, scatenate dalle informazioni sulla crisi climatica. Ed è importante non usare i dati per convincere le persone. I dati sono fondamentali, servono a capire perché una politica va attuata e, dopo, a capire se è stata efficace. Ma non fanno cambiare idea, non toccano le parti emotive che spingono cittadini e cittadine a scegliere cosa votare, ad attivarsi e impegnarsi per la comunità.
Conclusioni
Promuovere la ciclabilità non significa solo costruire piste ciclabili, ma riscrivere a livello sistemico l’immaginario collettivo dello spazio pubblico e del modo in cui ci muoviamo. È un processo che richiede ascolto, visione politica e competenza comunicativa. Serve costruire narrazioni capaci di parlare alle emozioni e ai valori delle persone, non solo alla loro razionalità, costruendo narrazioni nuove che non ricalchino quelle già associate all’auto. Se promuovo la bici perché è veloce, mi dà libertà e mi fa risparmiare, anche se è tutto vero, sto evocando narrazioni già usate da chi vende automobili, e quindi sto contribuendo a rafforzare quella narrazione. Se sposto l’attenzione su altri valori universali, declinandoli a seconda del pubblico a cui mi rivolgo e lavorando molto sul coinvolgimento della cittadinanza nella progettazione, le probabilità di successo aumentano molto. Il cambiamento è possibile, e in molti casi è già in atto. Accompagnarlo con le parole giuste può fare la differenza tra una politica osteggiata e una trasformazione condivisa.
Bibliografia
Caimotto, M. Cristina (2020) Discourses of cycling, road users and sustainability. An ecolinguistic investigation. Springer International Publishing, Cham. https://doi.org/10.1007/978-3-030-44026-8
Khan, Sadiq (2023) Respirare. Fermiamo insieme l’emergenza climatica. Trad. Marianna Grimaldi, Egea, Milano.
Verkade Thalia and Marco te Broemmelstroet (2022) Movement: how to take back our streets and transform our lives. Trans. Fiona Graham, Scribe Publications, London.
Parole chiave: ecolinguistica, ciclabilità, narrazioni, immaginario collettivo, intermodalità, semiotica dello spazio pubblico.